Come gli americani dicono di andare cauti sul mito degli overhead costs

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Schermata 07-2456479 alle 10.22.02Circa un anno fa, Valerio Melandri invitava – prima pubblicamente (anche su Vita di recente) e poi in una serie di nostre conversazioni via skype – a riflettere sull’inadeguatezza degli indicatori di efficienza più in uso per valutare la bontà di una non profit, quelli ad esempio che mettono in rapporto le spese di supporto e/o di fundraising con il totale spese. Le sue considerazioni hanno fatto scaturire in me – finalmente, son lento come un bradipo in letargo – tutta una serie di risposte a domande che mi facevo da tempo nel leggere i bilanci, sociali e non. Mi dicevo (faccio un esempio basic): ma se un ente per un anno investe di più sul fundraising, dedicando meno risorse alla ricerca ecc, improvvisamente diventa cattivo, inadeguato ecc? Dobbiamo metterlo alla gogna?

Alcuni giorni fa ho ricevuto  una newsletter americana che invita a riflettere sul “mito dei costi di struttura e di fundraising”.

La scrivono assieme tre importanti enti di ranking delle non profit americane:

BBB wise giving alliance, Guidestar, Charity Navigator

Mi sono permesso di tradurre il testo della prima pagina, e vorrei che vi concentraste su tre aspetti: gli attori, gli argomenti, l’esposizione (o la forma).

Gli attori: come detto, sono coloro che negli anni hanno spinto più di altri verso l’adozione degli indicatori. Qui non fanno una marcia indietro, ma dicono che per valutare una non profit non bisogna ridursi a esaminare un rapporto, che preso da solo non vuol dire nulla. Questa la chiamo onestà intellettuale. Ed è particolare – per noi italiani – che competitors si mettano assieme per dire una cosa di utilità comune. Per gli americani, l’utilità comune passa sopra gli interessi del singolo.

Gli argomenti: leggete e vedrete che è difficile dar loro torto.

L’esposizione: sono riusciti a far stare in due pagine (la prima è quella che ho tradotto, la seconda sono i risultati di altre indagini, la trovate col documento intero qui in fondo) un pensiero profondo ma comprensibile a tutti (tanto che si rivolgono ai donatori americani). Si rifanno all’esperienza quotidiana di ognuno di noi e non si perdono in barocchismi, frasi fatte, modi di dire, alti richiami a questioni morali, alla superiorità del non profit, ovvero a tutte le baggianate che leggiamo spesso quando si parla del non profit italiano.

Ecco la traduzione della prima pagina

IL MITO OVERHEAD

Per i donatori d’America:

Scriviamo per correggere un equivoco su ciò che conta al momento di decidere l’organizzazione da sostenere.

La percentuale delle spese delle organizzazioni relativa a costi amministrativi e di raccolta fondi – comunemente noti come “overhead costs” – è una misurazione di performance povera per valutare un ente di beneficenza.

Vi chiediamo di prestare attenzione ad altri fattori di performance delle non profit: la trasparenza, la governance, leadership e risultati. Per anni, ciascuna delle nostre organizzazioni ha lavorato per aumentare la profondità e ampiezza delle informazioni che forniamo ai donatori in queste aree in modo da fornire un quadro molto più completo di performance di un ente di beneficenza.

Questo non vuol dire che gli overhead costs non abbiano alcun ruolo nel assicurare l’accountability degli enti. Estremizzando l’overhead ratio può essere un indicatore di dati valido per sradicare la frode e la cattiva gestione finanziaria.

Nella maggior parte dei casi, tuttavia, concentrandosi sugli overhead costs senza considerare altre dimensioni critiche relative alle performance finanziarie e organizzative di un ente fa più danni che bene.

In realtà, molti enti di beneficenza dovrebbero spendere di più per spese generali. Le spese generali comprendono importanti investimenti che gli enti fanno per migliorare il loro lavoro: investimenti in formazione, pianificazione, valutazione e sistemi interni così come i loro sforzi per raccogliere fondi in modo che possano funzionare i loro programmi. Queste spese consentono ad un ente di beneficenza di autosostenersi (il modo in cui una famiglia deve pagare la bolletta elettrica) o per migliorare se stesso (il modo in cui una famiglia può investire in tasse universitarie).

Quando ci concentriamo esclusivamente o prevalentemente sugli overhead costs, siamo in grado di creare ciò che la Stanford Social Innovation Review ha definito “Il Ciclo fame Nonprofit.” Noi facciamo morire di fame le organizzazioni (non dandogli) la libertà necessaria per meglio servire le persone e le comunità che stanno cercando di servire.

Se non credete a noi – le tre fonti principali America di informazioni su enti di beneficenza, ognuna utilizzata da milioni di donatori ogni anno – leggete il retro di questa lettera in merito alla ricerca (operata) da altri esperti tra cui Indiana University, l’Urban Institute, il Gruppo Bridgespan, e altri che dimostrano questo concetto.

Quindi, quando fate le vostre decisioni di donazioni, considerate l’intero quadro. Le persone e le comunità servite da enti di beneficenza non hanno bisogno di basso overhead, hanno bisogno di prestazioni elevate.

Qui in fondo trovate il file in pdf

GS_OverheadMyth_Ltr_ONLINE

Qualcosa da imparare?

Molto. Molto!

Tutti noi.

Carlo Mazzini

PS: non mi ero accorto che il passato 26 giugno c’era chi aveva già segnalato il documento. Fundsteps Gli estensori del post mettono a confronto il documento con altre iniziative italiane … (ma leggete nel pensiero?) 😀

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6 commenti

  1. Questo americano sarà anche un guru, ma non fa un baffo al nostro Mazzini!!

    Certo però ben venga che si tratti di questo tema!
    Si parla sempre di più della gestione “aziendale” che devono avere le organizzazioni non profit ma non si può toccare la struttura come se non dovesse esistere, ma questa è una contraddizione assoluta!!

    Le prestazioni vanno misurate sui risultati e non sul “sentimento” del donatore, dell’istituzione o di chi legge di volta in volta il bilancio…

  2. Beatrice Lentati on

    Caro Carlo,
    hai colpito nel segno e tocchi un tema che andrebbe approfondito molto e bene e condiviso con i Consigli Direttivi e con i dirigenti di tante ONP. Soprattutto in tempi di crisi, come quello che stiamo vivendo, si assite al taglio di costi di struttura e di gestione che in alcuni casi sembrano propedeutici ad una involuzione che porterà molte oranizzazioni a trovarsi molto peggio in futuro. nel tempo si è già visto che le ONP che in momenti di crisi non hanno ridotto i loro investimenti si sono ritrovate molto avvantaggiate quando le crisi sono pasate. E’ “giusto” essere cauti ma ancor più è “saggio” e indice di capacità manageriale sapere essere lungimiranti e sapere gestire gli aspetti finanziari di una Organizzazione tenendo presente, come giustamente dicono gli americani, la ricaduta sugli output coerenti con gli scopi e con la Causa, a favore dei beneficiari.
    In questo periodo mi batto per convincere sempre più Organizzazioni ad attivarsi per ricevere donazioni attraverso volontà Testamentarie. Gli investimenti per attivare una Campagna Lasciti (senza toccare qui gli aspetti culturali legati al Testamento nel nostro Paese) sono quelli a maggior ROI (ritorno sull’investimento), il potenziale è enorme (solo i dati della Ricerca del prof Barbetta di alcuni anni fa rilevano la punta dell’ceberg rappresentato da patrimoni per un potenziale di 105 miliardi di euro di persone senza eredi che, senza testamento, andranno di diritto allo Stato(!). Bisogna programmare, investire cifre relativamente contenute rispetto a tutti gli investimenti di raccolta fondi che si possono fare, sapendo che i risultati si potranno vedere a due / cinque anni. Vista in ottica aziendale questa scelta è un “must”! Il mio amico Richard Raddcliffe esperto di lasciti testamentari ha recentemente scritto un articolo n cui dice che non attivarsi subito con una campagna mirata ai lasciti oggi per una ONP è un suicidio.
    Condivido pienamente il suo pensiero e vorrei che potesse essere oggetto di riflessione da parte dei consigli direttivi che devono saper vedere lontano…..anche se magari alcuni consiglieri, a causa del termine del loro mandato, non saranno più tali nel momento in cui si vedranno i risultati.
    Tutto questo per dire che le spese di gestione e di raccolta fondi (overheads) vanno viste in un ottica diversa: come “Investimenti”. Lo stesso dicasi dei costi per il personale!!! in situazioni dove ONP sottostaffate soffrono di inefficienze incredibili.
    L’argomento è molto interessante e meriterebbe riflessioni molto più approfondite. complimenti comunque a te Carlo che sai sempre sollecitarci tutti su temi di interesse comune e grazie per aver condiviso queste interessanti informazioni.
    Bea

  3. Ciao Carlo, grazie per la segnalazione. L’avevo letto anch’io su Fundsteps e mi ero ripromessa di rispondere. Lo faccio anche qui. Una chicca da conservare e che fa riflettere. Temo che siamo solo agli inizi di un cambiamento. Dobbiamo fare molta strada prima di raggiungere questa consapevolezza. Gli studi e la formazione di certo daranno una mano ma molto deve partire dall’interno, dalla Governance, da un diverso approccio e da una maggiore volontà di fare impresa, di investire. Questo, nel mio piccolo, ciò che penso e su questa linea mi auguro di portare, nella quotidianità, un contributo che vada in questa direzione. Grazie!

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