Un verificatore racconta

0

Succede che l’Agenzia delle Entrate dica che le Onlus non possono associare il proprio marchio a quello di una azienda (Ris 356/02).
Succede che si cerchino (anche da parte del sottoscritto) uscite tecniche da un’impasse non virtuosa; le organizzazioni coltivano il Cause Related Marketing come fonte alternativa di reddito, il fisco le sanziona, altro ministero – leggi Welfare – incentiva i rapporti profit – non profit.
Succede anche che un “verificatore” della Direzione Regionale delle Entrate ci invii il suo pensiero (chiedendo l’anonimato) sulle ragioni profonde di questa rigidità del Fisco.

Un buon punto di partenza … per andare chissà dove, ma l’importante è non star fermi e far finta di nulla, no?

Carlo Mazzini


La Ris. AE n° 356/2002, in tema di CRM, spingendosi oltre quello che era il quesito sottoposto dall’istante, formula alcune considerazioni in relazione alla posizione fiscale degli enti non profit coinvolti in tale struttura contrattuale, sostenendo nello specifico che: “… consentendo l’utilizzo della propria denominazione dietro versamento di una somma di denaro l’ente non profit pone in essere un’attività riconducibile allo schema negoziale della sponsorizzazione, che rileva, ai fini fiscali, come attività commerciale”

Il parere dell’Agenzia prosegue precisando che onde evitare che tale fattispecie configuri la produzione di reddito commerciale è necessario ricondurre tale attività nell’ambito di una “raccolta occasionale di fondi”, ed ancor meglio se evidente una prevalenza della somma versata rispetto al valore economico della prestazione pubblicitaria ricevuta (da cui desumere il carattere sostanzialmente liberale della causa negoziale) e naturalmente con la ricorrenza degli altri presupposti per l’applicazione dell’art. 108 (oggi 143) comma 2-bis lett.a) del tuir. Laddove poi l’ente che concede l’utilizzo del proprio marchio sia una Onlus, tale attività (ferma la deroga di cui all’art. 108 – oggi 143 – comma 2-bis lett. a) del tuir) è da ritenersi non consentita, pena la perdita della qualifica di Onlus.

L’Amministrazione Finanziaria motiva tale impostazione precisando che alle Onlus è vietato svolgere attività diverse da quelle istituzionali tassativamente individuate, ad eccezione di quelle a queste direttamente connesse considerando tali le attività analoghe a quelle istituzionali e le attività accessorie per natura a quelle istituzionali, in quanto integrative delle stesse.

Il contenuto della risoluzione ha suscitato numerose critiche da parte di qualificati specialisti del settore, ma, forse a causa della mancanza di interlocutori, non vi è stato dibattito sufficiente né contraddittorio sul tema.
Vorrei provare a suggerire una rivisitazione della stessa da un punto di vista differente.

Certamente la lettura di questa risoluzione può apparire un po’ miope, certamente se l’Agenzia si fosse strettamente attenuta al quesito formulato dall’istante oggi mancherebbero i presupposti della discussione in essere, certamente l’interpretazione data al “caso in esame” da parte dell’estensore della risoluzione è stata estremamente restrittiva !
C’è da chiedersi se si sia trattato solo di una rigida interpretazione normativa piuttosto che un’interpretazione “volutamente prudenziale” con l’intento di trasmettere un messaggio globale a molte realtà del mondo non profit – tra cui alcune sedicenti Onlus – che non aspettano altro che un allentamento delle maglie applicativo-interpretative del d.lgs. 460/97 per intraprendere a loro volta attività ancor più ai margini di quella di “sponsorizzazione” che porterebbero a frustrare di fatto la ratio ispiratrice sottesa alla legge sulle Onlus.
Mi sembra di leggere il pensiero di alcuni “se è stata accettata una prima volta dall’Agenzia delle Entrate lo svolgimento di attività di sponsorizzazione, che sicuramente non rientra nelle 11 tassativamente previste dal d.lgs. 460 e con ragionevole certezza neanche tra le attività connesse, è verosimile ipotizzare che anche altre attività, al di fuori di quelle tassativamente previste, possano in futuro superare l’esame di ammissibilità quali attività esercitabili dalle Onlus”.

Ciò che però ritengo sia ancor più pericoloso (per lo stesso mondo del non profit) è che un’interpretazione estensiva, quale quella auspicata nelle critiche alla risoluzione in esame, rischia di ripercuotersi nocivamente su tutte le “effettive” realtà non profit.
Proviamo infatti ad immaginare uno scenario in cui vi sia un eccesso di benevolenza interpretativa da parte di chi deve controllare la rispondenza delle Onlus alle caratteristiche che le contraddistinguono. Ci troveremmo ad essere circondati da molteplici organizzazioni sedicenti Onlus, che tali non sono “di fatto”, con la conseguenza che lo stesso marchio “Onlus”, che dovrebbe essere un “marchio di qualità”, sinonimo di “garanzia a prescindere”, perderebbe la sua funzione e perderebbe altresì quel ruolo di credibilità che oggi ancora sicuramente riveste e che forse dovrebbe essere maggiormente valorizzato sia da tutti gli stakeholders sia – perché no – dalla stessa Agenzia delle Entrate.

Il grande pubblico infatti ha memoria elefantiaca rispetto a quei fenomeni di mala gestione della beneficenza (penso ad esempio al noto caso della missione “Arcobaleno”), inoltre gli stessi media sistematicamente denunciano tali fenomeni (ad esempio “Striscia la notizia” ha sovente mandato in onda servizi-denunce di enti sedicenti benefattori che tali proprio non erano) e questo malcostume, forse retaggio di una mentalità tipicamente italiana (sembra che nei paesi di common law il fenomeno sia marginale), dilaga, nonostante l’AE sia particolarmente attenta nel vaglio delle comunicazioni inviate dagli enti richiedenti presso l’Anagrafe Unica e finalizzate all’acquisizione dello status fiscale di Onlus.
Viene logico pensare che se la stessa Direzione Centrale dell’AE sposasse una linea interpretativa meno rigidistica, ciò che al momento costituisce solo una piccola ferita all’interno del genuino mondo del non profit, rischierebbe di diventare un’insanabile piaga purulenta.E nel momento in cui si ingenera nel pubblico l’idea che la propria elargizione rischia di non andare a buon fine o ancor peggio di cadere in mani profittatorie, viene frustrato proprio quell’animus donandi che è alla base dell’elargizione e quindi della sopravvivenza del Terzo Settore costituendone la linfa vitale.

Siamo proprio sicuri che vi sia un reale interesse del mondo non profit “genuino” a spingere l’Amministrazione Finanziaria su una linea interpretativa che, molto probabilmente, determinerebbe ripercussioni con effetti contrari agli stessi interessi dell’universo non profit ?

Certamente la tematica di cui sopra ha uno stretto legame con l’attività dei controlli fiscali esercitata sul campo: “è compito dell’AF smascherare le finte realtà non profit tramite una decisa azione repressiva possibilmente di tipo preventivo”, ma non dimentichiamoci che anche i controlli sul campo si chiudono con controversie di carattere cartaceo in cui vengono utilizzate strumentalmente proprio argomentazioni simili a quelle da cui nascono queste parole.

Vorrei infine azzardare che nella fattispecie oggetto d’interpello comunque si configura quel sinallagma funzionale che caratterizza le c.d. “attività commerciali”: l’ente non profit concede in uso il proprio nome all’impresa ALFA ed in cambio la stessa corrisponde dei soldi direttamente a sostegno del progetto umanitario beneficiato. Quindi, anche se l’ente profit (impresa committente BETA) si impegna e paga direttamente ALFA, nella sostanza è come se il compenso per l’utilizzo del nome fosse corrisposto all’ente non profit, e da questo girato a favore del progetto benefico sostenuto.
Si realizza quindi quel rapporto corrispettivo tra prestazione e controprestazione che caratterizza per l’appunto il c.d. sinallagma e che di fatto qualifica la prestazione di sponsorizzazione in esame.

Io sono convinto che in cuor suo il materiale estensore della risoluzione 356 avrebbe voluto non dire che l’attività di “sponsorizzazione” è preclusa tout court alle Onlus. Tuttavia, e forse anche in parte anche per le ragioni sopraesposte – ma non solo -, l’interesse superiore di garanzia ed integrità di un settore che deve essere strenuamente tutelato da ogni rischio di inquinamento, lo hanno fatto propendere per la scelta interpretativa concretamente adottata quasi come fosse un male necessario da scontare per scongiurarne di peggiori.

Beati monoculi in terra caecorum

Controcorrente

Related Posts with Thumbnails
Share.

About Author

Comments are closed.

Questo sito utilizza cookie per funzioni proprie. Se continui nella navigazione o clicchi su un elemento della pagina accetti il loro utilizzo Per maggiori informazioni vai in fondo alla pagina e clicca su "Privacy Policy"

Vai in fondo alla pagina e clicca su "Privacy Policy" - Per contattarci su questioni "Privacy" scrivi a "studiouno (chiocciola) quinonprofit.it"

Chiudi