Riforma del Terzo Settore: è permesso opporsi al testo?

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Stefano Arduini, sul sito di Vita, segnalava alcuni giorni fa che i deputati del gruppo Movimento 5 Stelle stessero facendo un’opposizione basata su “una conoscenza superficiale del testo e del lungo dibattito che ha preceduto la formulazione della delega”.

Conosco Stefano da tanti anni, collaboro con Vita dal 2000. Non ho problemi a dire che la sua analisi degli interventi dei deputati non è condivisibile (nel titolo parla di grillini che frenano). In altre occasioni gliel’ho detto de visu o al telefono. Ho anche azzardato un embedding di Vita alla Riforma, a mio avviso non opportuno. Comunque Vita ha espresso una posizione editoriale e politica (nel senso più vero del termine) a partire dalla partecipazione di Riccardo Bonacina alle diverse “Leopolde”. Posizione legittima, ma pur sempre “posizione”. La domanda è quindi se si possa far opposizione non alla riforma ma al disegno di legge delega della riforma. Possiamo chiedere correttivi anche profondi alla riforma oppure il rancio è sempre ottimo, signor colonnello?

Venendo al merito a quanto si è discusso finora alla XII commissione della Camera, i deputati del M5S hanno posto alcune questioni a mio avviso corrette affiancandole a generalissime considerazioni sul fatto che c’è chi si maschera da non profit per farsi i fattacci propri; hanno quindi annacquato un pensiero degno di questo nome con la scoperta dell’acqua calda. Ma non sono stati i soli. Di un deputato di PI (Per l’Italia), il resoconto di una seduta riporta l’austero pensiero: “Ribadisce quindi l’importanza di contrastare gli abusi e di evitare che le cooperative siano trasformate in attività imprenditoriali che beneficiano di una fiscalità di vantaggio”. Chi glielo spiega che le cooperative DEVONO fare attività imprenditoriale con fiscalità di vantaggio? Che è ciò che prevede la legge (quella vigente, a partire dalla 381/91 per lo specifico delle coop sociali)?

Qualcuno ha adombrato la possibilità che ci sia un conflitto di interessi tra chi nella commissione esercita il potere di deputato e ricopre cariche in enti non profit. A mio avviso si è tirato fuori un tema importante (il conflitto di interesse: ovviamente non affrontato dal ddld) ma nel modo sbagliato. Se ci fossero politici competenti, perché non farsi suggerire soluzioni utili dettate anche dall’esperienza? Nel deserto di politici competenti, il problema è che nella delega si è volutamente estromettere due tipologie di soggetti non profit abbastanza chiacchierati. Non mi dite che non avete notato il fragoroso silenzio sullo sport dilettantistico e sulle fondazioni bancarie! Le prime hanno importanti rappresentanti in parlamento che fanno i pesci in barile. Le Fondazioni bancarie sono oggetto, nella legge di stabilità, di un inasprimento della tassazione sui capitali che colpisce anche il resto del non profit, cosa che nessuno dice. Ma nè delle prime nè delle seconde, nulla si dice nel testo di riforma.

SEL contesta l’uso – come il M5S – della delega da parte del Governo. Anche qui a mio avviso colpisce a metà il bersaglio. Il problema non è l’uso della delega ma l’abuso della stessa, cioè del fatto che incredibilmente – giusto per fare un esempio – nella ddld si dica che il Governo potrà redigere un testo unico, ma anche no. In generale il problema è che la delega a legiferare al Governo deve essere data dal parlamento non sulla base di generici argomenti (e nella delega ce ne sono troppi) ma di precise modifiche di legge quasi mai citate nel ddld. All’art 6, c 1 del ddld si legge “I decreti legislativi di cui all’articolo 1 disciplinano le misure agevolative e di sostegno economico in favore degli enti del Terzo settore e procedono anche al riordino e all’armonizzazione della relativa disciplina tributaria e delle diverse forme di fiscalità di vantaggio …”. Questa non è una delega, ma è come dire “fate quello che volete”, in palese contrasto con l’art 76 della Costituzione che così sentenzia

“L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti

Qui di oggetti definiti non ce ne sono, a mio avviso. Le misure agevolative possono essere le più diverse e se si pensa al solo comparto della disciplina tributaria lo spettro è davvero troppo ampio perché il parlamento davvero possa abdicare a favore del Governo dalle proprie prerogative di legiferare. Si pensi soltanto alla lettera a) del comma 1 dell’articolo 6 che riporto qui di seguito:

“definizione di ente non commerciale ai fini fiscali connessa alle finalità di interesse generale perseguite dall’ente e introduzione di un regime di tassazione agevolativo che tenga conto delle finalità solidaristiche e di utilità sociale dell’ente, del divieto di ripartizione degli utili e dell’impatto sociale delle attività svolte dall’ente”.

La definizione di ente non commerciale ha natura prettamente fiscale, e ne troviamo ragione già nel TUIR. Il quale non mette in relazione le finalità di interesse generale ma la realizzazione prevalente di attività non commerciali. Infatti, nella Circolare 124/98 l’Agenzia delle Entrate definisce l’ENC come la “tipologia soggettiva negli enti pubblici e privati diversi dalle società, che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali” e più oltre aggiunge “Nessun rilievo assume, invece, ai fini della qualificazione dell’ente non commerciale la natura (pubblica o privata) del soggetto, la rilevanza sociale delle finalità perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati”.

Davvero si vuole cambiare tutto ciò? Si vuole intervenire sul TUIR e sui principi fondamentali e definitori di chi è o meno soggetto alla tassazione? Ci rendiamo conto che mettere mano lì dentro “alla rinfusa” vuol dire far saltare un meccanismo delicatissimo? Avremo enti non commerciali con finalità sociali e enti non commerciali senza finalità sociali?

Perché qui, cari lettori, è tutto un riempirsi la bocca di parole delle quali non si conosce l’attuale e vigente significato. Si parla di ente non commerciale e lo si vuole definire nell’ignoranza dell’esistenza attuale di una definizione magari criticabile ma consolidata. Si parla di non profit e di terzo settore e non si conoscono i reciproci confini dell’uno e dell’altro. C’è qualcuno consapevole – tra Montecitorio e Palazzo Chigi – che una cosa è parlare di Terzo Settore e altro è disquisire di non profit? Temo di no. Qui si fa una poltiglia unica di finalità sociali, come se un’azienda non avesse di per sè finalità anche sociali, o un ente locale o comunque pubblico non perseguisse scopi sociali.

Capite bene che se la norma costituzionale richiede oggetti definiti e il proponente (governo) non conosce l’oggetto e non lo sa definire, andiamo proprio bene, siamo nelle mani giuste.

Io continuerò a leggere con rispetto e attenzione le discussioni alla Camera, cercando di capire se qualcuno ha una benché minima idea di cosa significhi mettere le mani all’interno di un ingranaggio complicatissimo (dotato di proprie ragioni e sragioni) come è il coacervo di leggi generali e speciali che regolano a volte contraddicendosi la vita del non profit e del terzo settore.

Il mio timore è che si sia davvero lontani da questa consapevolezza e questa non mi sembra la migliore delle notizie.

Cara Vita, è possibile dire tutto ciò o si rischia di essere tacciati di disfattismo o di gufismo?

Carlo Mazzini

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