#riformaterzosettore: come sminuire il lavoro nel non profit

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Se nel non profit c’era un’urgenza tra le tante che bisognava affrontare, quella era il lavoro. La sua tutela e l’alleggerimento dei costi per le organizzazioni senza incidere nelle retribuzioni del personale.

E’ stato affrontato il tema del lavoro nella Riforma?
Pacatamente, serenamente possiamo dire che è stato affrontato … nel peggiore dei modi.
Tre disposizioni nel Codice del Terzo Settore: una positiva e due negative.
Iniziamo da quella positiva che sembra banale o ovvia ma così non è.
All’articolo 16, nella prima parte dell’unico comma si legge che

“I lavoratori degli enti del Terzo settore hanno diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.”

Nulla quaestio anche perché di contrattazione collettiva non so nulla e quindi mi astengo. Sono sicuro che l’intenzione sia delle migliori e speriamo che non ci siano complicazioni dietro l’angolo. Quello che di sicuro manca è un contratto del lavoro ad hoc per il non profit, chimera della quale sento parlare da più di 15 anni e forse questa era l’occasione per porne le basi.
La prima disposizione negativa – per come è posta – è la previsione della seconda parte dell’articolo 16 che afferma (dopo la questione del trattamento non inferiore …):

“In ogni caso, in ciascun ente del Terzo settore, la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a sei, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda. Gli enti del Terzo settore danno conto del rispetto di tale parametro nel proprio bilancio sociale o, in mancanza, nella relazione di cui all’articolo 13, comma 1”.

La questione è: iniziare un articolo con “in ogni caso …” o indebolisce la frase precedente (quindi non è detto che i lavoratori del terzo settore abbiano diritto ad un trattamento economico …) in quanto fa apparire la seconda parte dell’articolo più importante della prima, oppure è soltanto un rafforzativo della frase che segue. E’ un pò come se avessero scritto “gli enti del terzo settore devono …”. E forse sarebbe stato meglio scrivere così, giusto per non ingenerare dubbi.
Noto che per quanto questa previsione sia rafforzata da “in ogni caso” e da “non può essere” manca una sanzione né credo che possa perdere il profilo di ente del terzo settore l’organizzazione che a. non rispetti il ratio 1:6 oppure b. non pubblichi nel bilancio sociale il dato, o ancora c. lo pubblichi falso.
Inoltre, differentemente dalla previsione di cui parleremo subito dopo, il mancato rispetto del ratio 1:6 non è considerata distribuzione indiretta di utili (art 8, cc 2 e 3).
Quindi si son dati i numeri senza spiegare da dove vengono, quale sia la ragione, a cosa porti il suo mancato rispetto e perché per le imprese sociali valga il ratio 1:8, imprese sociali che sono enti del terzo settore a tutti gli effetti.
Perché questa differenza se la distribuzione indiretta di utili non è in gioco?

Poi c’è la seconda ragione di doglianza degli enti non profit che parte dall’articolo 8, c 3, lettera b)

“3. Ai sensi e per gli effetti del comma 2, si considerano in ogni caso distribuzione indiretta:
a) …
b) la corresponsione a lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del venti per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’articolo 5, comma 1, lettere b), g) o h);”

E’ norma che deriva da una simile per le Onlus, non sappiamo se mai contestata a qualcuno dall’Agenzia delle Entrate né rispettata dalle Onlus stesse.
Senza ripercorrere il passato Onlus (l’Agenzia disse che poteva disapplicarsi solo con interpello disapplicativo da presentarsi di volta in volta; comodo, vero?), la questione è così riassumibile:

  1. dato che è inserito nell’articolo 8 e essendoci scritto che “si considerano in ogni caso distribuzione indiretta”, il superamento del 20% porta dal momento in cui si verifica l’uscita dell’ente dal novero di quelli del terzo settore ex tunc, quindi con perdita di benefici fiscali e riconoscimenti vari dall’amministrazione pubblica; infatti il presupposto dell’essere ente di terzo settore è l’assenza di scopo di lucro (art 4, c 1);
  2. non essendo più incardinato in una norma fiscale – come era quella delle onlus – a chi bisogna portare le “comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze …”? Al Ministero del lavoro? Secondo quale procedura? In quali tempi? Oppure vale l’articolo 94 (dove si cita l’articolo 8) e quindi si ritorna tra le fauci dell’Agenzia delle Entrate alla quale bisogna spiegare perché è meglio avere un ricercatore (o un medico o una qualsiasi professionalità) preparato con tanto di dottorato all’estero rispetto ad uno che si è comprato una laurea in Albania?
  3. L’eccezione per il superamento del 20% è ammessa solo per prestazioni sanitarie, formazione universitaria e ricerca scientifica. E gli altri chi sono? Figli della serva? Chi ci dice che per assistere persone disabili non ci sia bisogno dei migliori assistenti? O per fare interventi in campo ambientale o negli altri 20 e più settori dell’articolo 5?
  4. La domanda di base è: come faccio a realizzare una serie di attività se non ho la possibilità di attirare anche con stipendi più alti le migliori risorse? E vogliamo parlare dei fundraiser o degli amministratori? Come faccio a garantirmi le migliori professionalità se mi viene messo un cap salariale che non esiste in altri settori?
  5. Come la mettiamo con la costituzione che all’articolo 36 afferma che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”? Vogliamo proprio promulgare un’altra norma incostituzionale?
  6. E vogliano parlare del fatto – non mettetevi a ridere – che anche ai lavoratori autonomi si applicherebbe un riferimento (CCNL) ad essi non applicabile?

Nell’ordine abbiamo quindi una norma che al superamento della soglia vi fa perdere la qualifica di enti del terzo settore con annessi e connessi, che vi permetterebbe di superare la soglia solo in certi casi e non in altri e soltanto chiedendo a qualcuno che non sapete chi sia, che fa fuggire le risorse migliori e non attira i professionisti qualificati, che è incostituzionale, che si dice applicabile ai lavoratori autonomi ma non la è. Una bella trovata, non credete?

Perché poi la questione di fondo è che in Italia in ogni settore – giustamente – viene accettata l’idea (almeno in teoria) che chi più merita più ottiene, ma, per una fottutissima pruderie figlia della peggiore ideologia che assimila il non profit all’assenza o alla non necessità di soldi, il terzo settore viene considerato figlio di un dio minore, luogo dove gli sfigati lavorano per gli sfigati.

Poi, certo, se i nostri politici facessero un salto su internet non solo per twittare compulsivamente frasi banalotte, trite e ritrite quali “è nato il terzo settore” o “il terzo settore è in realtà il primo”, ma per capire cosa succede oltre Ventimiglia, troverebbero ad esempio una pubblicazione americana (e non è l’unica) che riporta i compensi per settore e per Stato su una serie di funzioni apicali degli enti non profit.
Guidestar così introduce la pagina dalla quale è possibile scaricare gratuitamente un estratto (il report completo costa oltre 300 dollari)
The GuideStar Nonprofit Compensation Report remains the only large-scale nonprofit compensation analysis based entirely on IRS data. This authoritative report gives nonprofits the information they need to establish appropriate compensation and demonstrate to grantmakers, oversight agencies, and individual donors that the salaries and benefits they offer are justified.

Una frase semplice semplice che spiega quindi che
… Questo report autorevole fornisce agli enti non profit le informazioni necessarie per stabilire un adeguato compenso e dimostrare agli enti erogatori, alle autorità di vigilanza e ai singoli donatori che gli stipendi e i benefit che offrono sono giustificati.
Non è questo il nostro obiettivo? Cioè che i compensi siano credibili agli occhi di donatori e delle autorità di vigilanza?

E se non vi basta questo, andate a sentire il citatissimo (da me e da Melandri prima di me) Dan Pallotta che in 17 minuti vi spiega perché ai lavoratori del non profit si debba dare di più rispetto ai lavoratori di altri settori.

Sono argomenti? Io credo di sì e vi invito a confrontarli con i non argomenti della norma.

Se questa norma liberticida, che frena il terzo settore, inapplicabile e incostituzionale verrà confermata nel testo che tra pochi giorni verrà licenziato dal Consiglio dei Ministri, avremo la conferma che è vero quanto affermato dal sotto segretario Bobba, cioè che conosce il non profit, ma che purtroppo si dimentica di aggiungere “quello di fine ‘800”.

Carlo Mazzini

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