Riforma del non profit: quale idea di impresa sociale?

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In merito all’Impresa sociale, nelle Linee guida per la riforma del terzo settore si legge

9) superamento della qualifica opzionale di impresa sociale, rendendo non facoltativa, ma obbligatoria l’assunzione dello status di impresa sociale per tutte le organizzazione che ne abbiano le caratteristiche;

10) ampliamento delle “materie di particolare rilievo sociale” che definiscono l’attività di impresa sociale;

11) ampliamento delle categorie di lavoratori svantaggiati;

12) previsione di forme limitate di remunerazione del capitale sociale;

13) riconoscimento delle cooperative sociali come imprese sociali di diritto senza necessità di modifiche statutarie e semplificazione delle modalità di formazione e presentazione del bilancio sociale, pur mantenendone l’obbligatorietà;

14) armonizzazione delle agevolazioni e dei benefici di legge riconosciuti alle diverse forme del non profit;

15) promuovere il Fondo per le imprese sociali e sostenere la rete di finanza etica;

e poco prima (al punto 1, ultimo punto)

codificazione dell’impresa sociale.

Se volete sapere di cosa si parla, andate a legge il recente disegno di legge 2095 (AC) presentato a febbraio da uno degli estensori delle Linee guida, l’on Bobba.

Così ve ne fate un’idea.

Sapete che io più volte mi sono espresso non contro l’Impresa sociale ma contro chi ha inteso in questi anni guardare la realtà con gli occhi foderati di culatello (tagliato spesso), o, fuor di metafora, ha dato maggior peso al termine sociale – come fosse il chiavistello giusto per aprire tutte le porte – e si è dimenticato che un’impresa, seppur sociale, deve avere le caratteristiche e le motivazioni dell’impresa, altrimenti ne viene fuori un OGM non utile alla causa. Che poi è quello che è successo con l’impresa sociale ex D Lgs 155/06!

L’impossibilità di dividere gli utili – anche limitatamente – tra gli azionisti è sempre stato il grosso difetto delle Imprese sociali. E per fortuna nelle Linee guida si fa riferimento al punto 12 “previsione di forme limitate di remunerazione del capitale sociale”.

Ora, un consiglio non richiesto ai nostri legislatori in erba.

Andate a vedere cosa hanno fatto in Inghilterra, in Francia, persino in Oregon (dove qualche tempo fa si ipotizzava di istituire low profit limited liability Companies, peraltro già operative in Vermont dal 2008).

Si parte sempre da lì. Dalla remunerazione con “cap” del capitale. Dimenticatevi di farle diventare Onlus (my god!), non forzate nessuno a diventare Impresa Sociale, dato che gli automatismi di norma penalizzano gli enti.

Fate una cosa sensata. Date delle agevolazioni fiscali compatibili con il Trattato di Lisbona (evitate accuse di distorsione del principio di concorrenza leale), in modo che non ci inseguano in tutta Europa con minacce di infrazioni e con la certezza di un fuggi fuggi di investitori.

Se si partisse da pochi punti (benissimo anche l’allargamento dei soggetti “svantaggiati”), si eviterebbe di mettere troppa carne al fuoco e di non concludere nulla.

Fondamentale sarà capire come le legislazioni straniere hanno definito gli incroci di governance tra ente non profit (magari proprietario dell’IS) e IS. Vi sono divieti particolari nel caso delle CIC inglesi. Chiedersi il perché non sarebbe male.

Chiedetevi come potrebbero passare fondi da IS a ente non profit e contrario, senza che vengano tradite le ragioni d’esistere dei due enti; da un lato divieto di distribuzione indiretta di utili e dall’altra perseguimento / massimizzazione degli utili (no eterodestinazione delle risorse create dalla IS).

Vi segnalo che a molti enti non profit sarebbero utile poter costituire e detenere un ente for profit (e commerciale) che potesse fare attività imprenditoriale pagando le imposte che deve, utilizzando e valorizzando il marchio della non profit (e riconoscendole una fee).

Chi ha orecchi per intendere …

Siate semplici, fatevi le domande giuste, prevedete il prevedibile.

Carlo Mazzini

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